Un’ombra

Un’ombra venne da me.
Mi prese la mano che neanche me ne accorsi.
Quando mi resi conto della sua presenza m’aveva già afferrato tutto il braccio e anche la spalla.
Non pesava, non m’infastidiva, m’accompagnava ovunque.
Mentre dormivo e quando facevo la doccia pure l’avevo con me.
Alta e scura com’era prese a crescere e divenne anche grossa, forse grassa, un’ombra obesa, così grossa e scura che non vidi più oltre lei.
Il mondo ora lo vedevo per metà, la metà di destra, a sinistra solo l’ombra.

Capitò un giorno che un signore molto anziano si sedesse accanto a me sull’autobus, compenetrò l’ombra e non lo vidi più, il signore non riemerse più dall’ombra.

Qualche tempo dopo mi accorsi che l’ombra aveva smesso di cresce, aveva ora la dimensioni più o meno di un elefante giovane asiatico, nato prematuro, maschio.
Smise di crescere ma in compenso iniziò a parlare.
In principio erano solo timidi suoni, vocalizzi, cominciò quindi a imitare i gargarismi che facevo nel lavarmi i denti, anticipare le parole delle canzoni che cantavo sotto la doccia, e di notte russava, russava terribilmente. D’altronde era un’ombra obesa.

Per dormire iniziai così a indossare i tappi alle orecchie.
Mi provocarono infiammazioni. Presi l’otite. Mi curai. Non indossai più i tappi.
Quando l’ombra russava ora le tiravo le ciabatte. Non funzionava molto.

Dormivo male e di giorno non riuscivo a pensare, l’ombra aveva imparato bene a parlare, aveva una dizione perfetta, ma parlava troppo e di continuo.
Divenni insofferente e irascibile, la gente mi evitava.
Gli amici mi evitavano.
I familiari mi evitavano.
Mia moglie chiese il divorzio.

L’ombra imparò a dire le parolacce e a fare le puzzette.
Apprendeva continuamente e diventava sempre più complessa, più concreta.

Quando scoprii che mi rubava il cibo dal piatto non ci vidi più, proruppi in uno scatto d’ira.
Mi misi ad urlare, presi a insultarla, a minacciarla, a offenderla.
Ero in mensa, la gente, i colleghi mi guardavano allibiti e forse credevano fossi pazzo.
“Brutta grassona!!!” le sbraitai contro.
“Cosa c***o vuoi da me b*******a?”
“Che m*****a ti dice quella testa vuota che ti ritrovi?!”
“Vai a farti f*****e, piantala di starmi attaccata alle p***e!!”.
A una settimana da quell’episodio persi il lavoro.
Divorziai.
La mia famiglia non volle più vedermi.

L’ombra m’aveva tolto tutto.
Avevo perso ciò che avevo di importante, l’amore, gli affetti, il lavoro, la dignità.
Solo una cosa m’era rimasta ed era lei, l’ombra.
Nonostante tutto sentivo affezione nei suoi confronti, aveva scelto me, era crescita con me, aveva imparato da me, era una parte di me, era la sola ad essermi rimasta accanto.

Fu così che cedetti all’ombra, l’abbracciai, sprofondai in lei e, come quell’anziano sull’autobus, non ne riemersi più.

Il danzatore nudo

Si trascinava ogni mattina fuori dal letto, andava in doccia e poi si metteva a ballare nudo sul terrazzo, alla vista di tutti i condomini lì intorno.

I vicini lo additavano, lo sbeffeggiavano, le mamme chiudevano gli occhi ai loro bimbi curiosi, le anziane facevano finta di scandalizzarsi ma in fondo s’esaltavano a quei balletti, ché l’era comunque un bell’uomo.

“Mamma, mamma guarda quel signore, chi è? Perché balla senza vestiti?”
“È un pazzo figlio mio, fa finta di nulla, non guardare!”

Il gelsomino cresceva rigoglioso sul terrazzo del danzatore e i balletti erano bene incorniciati dai fiori. Poi venne anche l’uva che dai tralicci scendeva dall’alto, il danzatore ora sembrava Bacco.
Uno spettacolo.
Criticandolo, tutti lo guardavano.

L’era bravo, c’aveva un modo di ballare contagioso, anche senza musica, si poteva sentirne il ritmo cogli occhi, e indovinare il colpo d’anca successivo al primo e poi al secondo e le mani nel mentre volteggiavano fluide e ipnotiche.

Inoltre, era un signore più che dotato, lì in basso, così che l’elicottero danzava pure lui, a tempo, insieme alla chioma di lunghi capelli che sinuosa portava in testa.

Questo spettacolo si ripeteva tutte le mattine.

Un giorno, però, il sole eclissò e il folle nudo che ballava sul balcone non si vide più.
Quella mattina nessuno fiatò, né le mattine successive.

Passarono i mesi e poi gli anni, del danzatore più nessuna traccia. Qualcuno giura di averlo rivisto, nelle mattine più nebbiose, ballare ancora su quel terrazzo.