Sfogo alla cazzo

Non riesco completamente a realizzare questa cosa che è il lavoro. Cioè, mi state dicendo che io per mangiare devo sacrificare almeno 8h della mia vita ogni giorno che poi 8h non sono, son sempre di più al lordo, ma anche al netto, che poi vuoi mettere le ripercussioni in termine di forma fisica e sedentarietà, stress psicologico, contatto con smog, inquinati, posizioni viziate del corpo protratte nel tempo, fattori di rischio di ogni tipo, oltre che monotonia, routine, omologazione, alienazione, deprivazione di energia, deprivazione di sonno, quindi 8h che 8ore non sono, e in più ci rimetti in salute, e almeno fosse tempo sacrificato in virtù di ideali positivi, di uno scopo comunitario, di un qualcosa di bello. Tanta energia impiegata, tanto sudore e poi?


“”Impegniamoci oggi per costruire qualcosa per il domani!””. Col cazzo! Per che futuro ci stiamo impegnando? Ditemi un po’.


“”Ci sacrifichiamo noi oggi così domani i nostri figli staranno meglio””. Anche su questo punto mi sento di dire: col cazzo!


Che poi, le buone posizioni, a cui tanti aspirano, che sono? Sono cose di cui aborro l’etica che è quella del profitto, dell’iperproduzione, del guadagno fine a sé stesso, del marketing acefalo e spregiudicato. L’aspirazione è mirare a essere parte di questo sistema e dunque avere un buon stipendio, magari risalire la china per occupare posizioni più alte nella scala gerarchica del profitto.

Caspita che colpo! Ho inculato il cliente, gli ho rifilato una ciofeca a peso d’oro. Sei un mago degli affari te! Complimenti.


Ho un colloquio lunedì, è una buona posizione, dovrò andare a comprarmi una cravatta, tagliarmi i capelli. Mi raccomando, nessun tentennamento, dimostra di essere uno squalo e ricorda che tu impari in fretta, hai spirito competitivo. Il lavoro è stressante? Meglio! Tu dai il meglio di te sotto stress!


Ah sì? Perché io proprio no.


Che sistema del cazzo!!! Ma questo non puoi pensarlo ad alta voce a meno di venire etichettato: sei un idealista, un fricchettone di merda che deve tornare coi piedi per terra. Sveglia! Dovrai lavorare per tutta la vita. Ti lamenti? Sei un bamboccione viziato. Cresci! Dovresti anzi ringraziare di avere un lavoro, hai un buon stipendio, la macchina aziendale, i buoni pasto, di che ti lamenti quindi?


Feste programmate, qualche ora d’aria alla sera, addirittura quasi tutti i weekend liberi, trovi anche qualche pomeriggio per respirare, prendi un permesso, ad agosto hai due settimane per ricaricare le pile. Ma davvero?? Davvero!!


Davvero un cazzo! Mi verrebbe solo da vomitare per la grande nausea che mi provoca tutto ciò. Bisogna rassegnarsi? Certo. È quello che sto facendo, nonostante tutto è quello che sto facendo, oltre al venire a compromessi con la coscienza. E con ciò mi sto spegnendo sempre più, di mese in mese, di anno in anno, e quello che mi fa più incazzare non è questo, quello che mi fa più incazzare è il fatto che pensando alla me di qualche tempo fa mi rendo conto di quanto fossi immatura: pensate un po’, riuscivo a fottermene di tutto ed essere felice. Non ricordo più come si fa, o, meglio, a volte ancora mi riesce ma per la maggior parte del tempo non ne sono più capace.

Come Messner

Ciondolava come un ubriaco o, meglio, come un alpinista a 8000mt di quota senza bombola d’ossigeno. Luigino stava compiendo un’impresa. Ogni passo gli costava concentrazione, avrebbe potuto collassare in qualunque momento. Sulla strada che portava dall’abitazione di sua zia Cettina alla bottega del paese nessuno avrebbe immaginato Luigino stesse compiendo quell’epica scalata. Come Bonatti sul K2 o Messner sul Nanga Parbat, Luigino incedeva lento, incerto ma implacabile, determinato a raggiungere la sua vetta.

Di fianco a lui camminava il cugino, ma era come se fosse distante 10.000 anni luce. Mille altre volte aveva percorso quella strada ma questa volta era diverso.

“Luigino, come minchia cammini? Hai bevuto?” Gli domandò il cugino vedendolo sbandare. Al che Luigino non poté trattenersi, scoppiò in una risata incontrollabile e violenta dettata probabilmente dall’ebrezza della quota e dalle endorfine che il suo corpo stava producendo per placare il dolore. Col fisico scosso ora dal riso, ora da brividi di freddo che gli arrivano sin dentro alle ossa, Luigino contò gli ultimi metri, 100mt….80mt….50mt.

In bottega il cugino ordinò del pane mentre Luigino si lasciava cadere lì di fianco, su di una sedia. Finalmente poteva smettere di combattere. Era arrivato. Lasciò che la stanchezza lo sopraffacesse. Con le gambe a pezzi e ogni osso del corpo dolorante, la faccia gli avvampò.

“Oh Luigino caro, ma che c’hai, che sei tutto rosso? Vuoi vedere che ti sei pigliato anche tu l’influenza? Quest’anno è brutta!” E così dicendo Concetta, la bottegaia, entrò svelta nel retrobottega. Tornò da Luigino con un termometro a mercurrio che gli infilò sotto l’ascella e, mentre la temperatura saliva sino a 39.1, Luigino non poté fare a meno di togliersi un sorriso ebete dalla bocca fissando trasognato il vuoto davanti a sé.

Essere ciliegio

C’era una volta un piccolo germoglio. Guardava attorno a sé gli altri alberi più grandi, la quercia nodosa, il pino pungente, il composto cipresso, ma più di tutti guardava al ciliegio. Ammirava il ciliegio, voleva essere ciliegio anche lui.

Il piccolo germoglio crebbe e divenne alberello e maturò frutti tondi e succosi, di color amarena. Divenne finalmente anche lui ciliegio e fu il ciliegio più bello e robusto di tutti. Visse nei secoli al massimo della ciliegitudine e oggi è il ciliegio più grande d’Italia.

Ogni giorno intorno a lui si radunano coppiette amoreggianti, famiglie felici imbastiscono picnic sotto i suoi rami. Ciononostante il povero ciliegio come mai prima soffre la solitudine ed è triste, nonostante i fiori, nonostante i frutti.

Ieri notte siamo andati a tenergli compagnia, lui nella sua solitudine a malapena ci ha percepiti, noi nella nostra solitudine a malapena l’abbiamo visto nel buio.

La Tina

La Tina in tre anni con indosso la mascherina aveva dato libero sfogo alla sua mimica facciale. Sotto quel pezzo di stoffa v’erano smorfie, pernacchie, digrigni, che tanto nessuno vedeva. Ogni stato d’animo lo esternava sotto la mascherina. Parolacce col labiale, bestemmie ed altre imprecazioni soffocate. La bocca e le guance ormai non le controllava più.

Si sfogava così, la Tina, e si sentiva bene, tanto bene che non ebbe più bisogno degli inibitori di pompa protonica per la gastrite cronica. Divenne una persona all’apparenza molto affabile, la più affabile che io conosca.
La Tina!? Un tesoro! Mentre sotto la mascherina via di imprecazioni e parolacce e kittem0rt.

Quando le mascherine furono messe al bando, perché troppo inquinanti e perché ormai l’emergenza pandemica era passata, rimase solo la guerra e la Tina cadde in crisi, una crisi profonda, non risolvibile. Non seppe infatti più controllare l’espressione di metà volto e la bocca continuò a far smorfie.

Era un problema, la gente si indignava a quelle smorfie, s’offendeva e non capiva la povera Tina in balia di quello scherzo. Fu così che tutti gli amici si allontanarono, come anche i conoscenti e i parenti, anche quelli serpenti. Credevano che mancasse loro di rispetto.
“La Tina s’è bevuta il cervello”, dicevano.
“Che ha? Ora ci disprezza!!!”.
“Pfff, non voglio più avere a che fare con lei!!!”.

Disperata, così, la Tina decise di ricorrere alla misura estrema. Punture di botulino self-made per bloccare i muscoli facciali ed iniezioni siliconizzanti, per domarli come si doma un cavallo imbizzarrito. Tina, la nuova Tina, era tutta un guance di marmo, labbra a canotto, espressione neutra come una Barbie.

Tina iniziò così una nuova vita, entrò in nuovi giri, si fece nuovi amici, la maggior parte dei quali anche loro con labbra a canotto e ritocchini di qui e di lì. Ma Tina andava fiera che nessuno avesse labbra tanto gonfie quanto le sue. Chissà se anche loro avevano da nascondere un segreto come la Tina.

Dichiarazione d’amore

Vorrei prenderti tra le braccia, con delicatezza e tenerezza, lentamente, perché con me non devi temere niente, io ti capisco.

E vorrei stringerti, prima piano, poi più forte, poi tanto forte da sentirti tutto. Vorrei sentirti profondamente dentro me. Vorrei gioire delle tue gioie, patire i tuoi patimenti, respirare il tuo respiro e consolarti di tutto, perché io ti capisco.

Vorrei fondermi con te così che non servano più le parole.

Vorrei tutto questo eppure, pazzesco, mi comporto come se volessi tutto il contrario.

Andai in guerra

Andai in guerra anche se non era la mia guerra.

Ci andai per sperimentare. Ci andai per comprendere.
Mi tuffai nel più nero odio e disperato strazio, nella più genuina benevolenza e pura compassione, nel sentire più vero e profondo.

Andai in guerra per non vivacchiare nel tiepidume confortante, nel sospetto e nel non-detto, per non vivere la ferocia sublimata nel conveniente.

Mi cimentai nelle peggiori efferatezze, nelle più empie barbarie ma anche nel più sentito amore e attaccamento alla vita.

Fui la donna stuprata dall’ufficiale e al tempo stesso fui l’ufficiale che stupró.

Fui il bambino trucidato dal gendarme e fui il gendarme che sparó.

Fui la madre che pianse infinite lacrime calde sul freddo corpo del suo bambino.

Sino in fondo, tutto volevo sentire, tutto cercare di comprendere.

Andai in guerra perché era anche la mia guerra.

Un cane

Un cane scavava, scavava sulla superficie e continuava a scavare.

Scavava e scavava, sotto la superficie trovava altra superficie e lui continuava a scavare. Passò molto tempo, che lui ancora scavava, c’era ancora superficie da scavare. La fossa scavata era ormai profonda più di millemila unità.

Capitò un giorno che la superficie già scavata era così tanta che dal grande peso collassó. Collassó sopra al povero cane che non poté salvarsi in alcun modo, morì soffocato.

Il suo corpo si decompose in millemila pezzettini e quei pezzettini penetrarono a fondo, cosí a fondo che riuscirono finalmente ad arrivare oltre la superficie, ma il cane non fu più cane per accorgersene.

Sfogo

Sto diventando sempre più misantropa e insofferente.

Non sopporto la realtà che vivo ogni giorno, la superficialità dei discorsi, il pressapochismo e la volgarità dell’Italiano medio. Sono stanca del bigottismo e della chiusura mentale.

Non sopporto la politica, la propaganda, l’informazione che è manipolazione.

Non sopporto le ingiustizie, il consumismo, le frivolezze, le vanterie, le mode, le distrazioni di massa.

Non sopporto i luoghi comuni, il sospetto, il controllo, la vigliaccheria, l’arrivismo in ogni campo.

Non sopporto l’ostentazione, la mancanza di empatia, la sete di potere sull’altro.

Non sopporto il concetto di lavoro, la poca etica, la furbizia.
Non sopporto il sistema, tutto.

C’è una doppia faccia per qualsiasi cosa, falsità e ipocrisia sembrano essere le costanti.

Forse questo malessere è perché vivo in città, altrove magari sarebbe diverso, fuori dall’Italia magari è diverso, in un paesino di poche anime in centro italia magari è diverso.

Sta di fatto che ora, mentre scrivo, sono a tal punto stanca di tutto questo che mi sale la nausea. Preferirei dormire e non partecipare più alla vita. Apatia. Prigioniera della mia piccola prigione mentale.

Dovrò fare qualcosa per tirarmene fuori.

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Es

Ci fu un tempo in cui fui come un dio, libero da qualsiasi vincolo, diedi sfogo a tutto ciò che mi si manifestava in corpo. Fui senza freni, mi sentii invincibile, occupai tutto lo spazio che potevo occupare non curandomi di altro se non del mio soddisfacimento. Sparsi sangue come fosse vino, schiacciai corpi e frantuma i crani. Godetti di tutto che intorno a me poteva procurarmi godimento, infine caddi e morii violentemente.

Rinacqui uomo. Fui uomo pavido e vigliacco. Subii angherie e soprusi masochisticamente. Disprezzai me stesso e godetti del male degli altri. Mi nascosi per tutto il tempo e alla fine morii in sordina, nessuno si accorse di me.

Rinacqui uomo. Agivo come un uomo ma non mi sentivo uomo. Cercai di comprendere. Vissi con un certo distacco dalla cose cercando di capire gli uomini e me stesso. Morii solo, circondato da volti amici, e ora aspetto di rinascere.